Prendete lo sparatutto moderno, con una trama elaborata, attori hollywoodiani, apertura del mondo di gioco, potenziamenti del personaggio, un sistema di movimento dinamico e tante altre corbellerie come può essere anche un comparto multigiocatore. Bene, ora togliete il sistema di movimento che vi permette di saltare, di effettuare scivolate e, tanto che ci siete, eliminate l’asse Y della visuale. Togliete anche la modalità mirino, gli attori famosi, la trama elaborata, qualsiasi forma di potenziamento del personaggio ed eliminate ogni cosa renda il mondo di gioco vasto, anzi, rimpicciolitelo completamente. Eliminate il multigiocatore, le modalità extra, la battle royale, le microtransazioni e, infine, sostituite la grafica  “fotorealistica” con qualche pixel in più.
Cosa otteniamo da questa operazione di demolizione e ricostruzione dello sparatutto moderno? Quello puro, ovviamente. Dove basta un‘azione veloce e premere il grilletto. Dove non hai bisogno di un potenziamento per darti l’illusione di essere più forte. Dove non serve un mondo di gioco enorme per avere quella sensazione di smarrimento. Nessun aiuto sullo schermo, niente che ti dica dove andare, cosa fare, come risolvere un puzzle ambientale. Nulla che indichi dove trovare l’interruttore o la chiave per aprire quella dannatissima porta che blocca il passaggio, oppure per trovare la giusta strada per arrivare alla fine del livello.
Questo, molto probabilmente, era lo sparatutto di una volta. Dove tutti gli elementi citati poc’anzi non erano indispensabili per un’esperienza sparatutto in soggettiva. Ed oggi, per fortuna, tutti possono provare l’ebrezza dell’FPS “di mio nonno” sulle console moderne, grazie soprattutto alla pubblicazione a sorpresa dei classici Doom.

Doom: c’era una volta lo sparatutto puro

Assieme a non troppe complicazioni all’interno del team di sviluppo, nel 1993 Id Software pubblicò uno sparatutto, reduce dal successo di Wolfenstein 3D, il cui concept vedeva la tecnologia umana scontrarsi con dei demoni. Quel gioco prese il nome di Doom.
Il titolo permette ai giocatori di vestire i panni di un marine, il quale, a seguito di un crimine commesso, viene spedito su Marte obbligato a lavorare per la UAC. Da qui, il protagonista definito come Doomguy, si ritrova coinvolto in una guerra tra uomini e demoni sul pianeta rosso. Proprio da questa semplicità nasce un titolo profondo, con un gameplay essenziale, veloce, frenetico ma anche al passo con le nuove tecnologie. Doom sfruttava l’innovazione del 3D per la riproduzione degli ambienti che formavano ogni livello, assieme ad un connubio di nemici realizzati con degli sprite 2D, i quali simulavano addirittura la fiammata di ogni arma. Il tutto senza contare che, dall’allora Wolfenstein 3D, vennero introdotte tante novità sull’aspetto grafico: texture pavimentali, stanze con illuminazione di intensità differente, un mondo posto su un unico piano, il quale dava l’illusione di essere in realtà posto su più livelli, e muri con varie angolazioni rispetto ai classici novanta gradi.
La colonna sonora, che venne realizzata da Bobby Prince, è rimasta scolpita nella memoria – e nelle orecchie – di coloro che giocarono all’opera di John Romero nel 1993. Bobby si ispirò ai brani di gruppi Heavy Metal come Metallica, Slayers e Pantera, facendo nascere quella soundtrack che ancora oggi alimenta la nostra adrenalinica mattanza di demoni, soprattutto nel reboot della serie uscito nel 2016. Giusto per farvi avere un’idea della rudimentalità dello sviluppo di allora, molti degli effetti sonori provenivano dalle classiche royalty free, ossia quei contenuti liberi da qualsiasi legge sul copyright.

Nonostante la nostra parziale introduzione alla realizzazione del primissimo Doom, non è questo l’argomento su cui vogliamo soffermarci oggi. Il prodotto di Id Software rappresenta un’evoluzione del capostipite “Wolfenstein 3D”, con un level design ancor più profondo, una maggiore interattività con l’ambiente circostante (tra cui porte ed ascensori) e l’implementazione di livelli e passaggi segreti. La peculiarità dello sparatutto è quella di offrire un gameplay ad alti ritmi, con tempi di ricarica minimi per garantire una maggiore prontezza davanti ai numerosi demoni che invadono le basi della UAC. Senza contare che non è presente alcun sistema di mira, né tanto meno un’asse Y della visuale con cui poter muovere l’arma in pugno. Infatti, tutto ruota attorno alla velocità di movimento. Il centro dello schermo viene utilizzato come riferimento per un reticolo assente e tutto ciò che resta da fare è scaricare il caricatore sui nemici che ci attaccano. Quello di Doom è un gunplay che non annoia mai, soprattutto quello dei classici della serie, dove la frenesia mantiene la concentrazione alta negli scontri a fuoco. In essi, prendersi una pausa nascondendosi dietro ad una solida copertura risulta quasi inaccettabile.
L’ampia armeria è inoltre un toccasana che influisce positivamente sulla variabilità dello stesso gunplay. Conviene utilizzare un BFG o un fucile a pompa? Con Doom 2, però, la serie raggiunge l’apoteosi. Più nemici, più armi e più livelli da giocare, un pianeta Terra reso infernale con l’ascesa dei demoni ed un mondo di gioco migliorato grazie ad una maggiore apertura degli ambienti. Tutto senza dover limitare l’avventura sanguinolenta ad un continuo correre tra corridoi stretti e spazi angusti. E poi c’è anche la motosega.

Lo sparatutto moderno non ha più quella magia di una volta. 

Oggi, per ovvi motivi, lo sparatutto moderno non ha più la stessa magia di una volta. Prima bastava semplicemente accendere ed avviare la partita per correre lungo un corridoio con tanti nemici, da eliminare senza alcuna interruzione. Per realizzare uno sparatutto in soggettiva vengono presi in considerazione tanti fattori: come una campagna giocatore singolo o cooperativa più coinvolgente, dove negli ultimi anni la cinematografia ha influenzato maggiormente molte produzioni. Principalmente la serie di Call of Duty, che è arrivata ad includere addirittura attori e guest star abbastanza famose. Anche l’avvento del multigiocatore online ha cambiato radicalmente il modo di giocare. Per ottenere delle prestazioni migliori, oltre ad una buona skill, si fa utilizzo di periferiche come controller elite (nella fattispecie scuf), tastiere e mouse con precise caratteristiche e schermi ad alta frequenza d’aggiornamento. Non dimenticando le immancabili connessioni ed hardware migliori. Sempre trattando di multigiocatore, i team di sviluppo fanno ricorso a diversi contenuti scaricabili, gratuiti e a pagamento, per mantenere attivo il proprio titolo e alle microtransazioni, le quali affossano la community con oggetti cosmetici come skin personalizzabili o, addirittura, armi bonus. Cosa dire invece delle continue patch correttive e dei bilanciamenti delle armi che, a dirla tutta, mai e poi mai risolveranno quell’alone di sbilanciamento che pervade il comparto multigiocatore di un titolo competitivo.

Anche il gameplay ha subito grandi cambiamenti. Gli fps, col passare del tempo, hanno ricevuto variazioni di ogni tipo. A partire dai ritmi di gioco che hanno subito un rallentamento, come possiamo vedere in Doom 3, allontanando così i giocatori da quella pura frenesia che si scatenava tra un uccisione di demoni e l’altra. Ammorbidire il ritmo del gameplay ha incentivato la nascita di titoli la cui campagna single-player ha assunto uno stampo più cinematografico, come accennato poc’anzi, senza ovviamente rinunciare all’intensità dei singoli scontro a fuoco. L’avvento di nuovi generi, o di unioni tra essi, ha portato alla nascita di diversi titoli le cui ambizioni non si limitano ad assumere una singola identità, un cui esempio pratico è la serie di Fallout. Una serie che, dal terzo capitolo in poi, ha seguito due correnti: da una parte troviamo lo sparatutto, il quale assume un ruolo primario nella sopravvivenza, mentre dall’altra troviamo la corrente ruolistica, dove prende il sopravvento l’interazione con i personaggi non giocanti e la progressione del personaggio. Questa esperienza, nata grazie all’unione tra due generi, concede un gameplay variegato e più approfondito, seppur in realtà – soprattutto in questo caso – la componente sparatutto viene meno.
Il genere si è evoluto e con esso anche il gameplay. Basti pensare ad un Titanfall 2, nella cui campagna il giocatore singolo propone diverse situazioni come il platforming. Questa componente, grazie alle peculiarità del sistema di movimento, è riuscita a proporre una maggiore verticalità al prodotto, aprendo di conseguenza a nuove strategie con cui affrontare il nemico. Ma anche al recente Wolfenstein: Youngblood (QUI per la nostra recensione in merito) che rappresenta un’evoluzione per il brand, unendo lo sparatutto ad una piccola componente RPG, con tanto di apertura del mondo di gioco, una maggiore verticalità, una modalità cooperativa, mantenendo l’eccellente feedback delle armi a cui Machine Games ci ha abituati.
Negli anni abbiamo visto come questa corrente si sia evoluta ed il pubblico, soprattutto quello più giovane, non può più accontentarsi di eseguire solo un’azione, fosse anche il solo sparare contro dei nemici controllata dalla IA del gioco. Queste maggiori esigenze, da parte del pubblico, hanno portato gli sviluppatori ad allontanarsi dalla realizzazione degli sparatutto più tradizionali.

L’importanza di giocare Doom oggi

Sinceramente, quando Doom e Doom 2 uscirono su PC io neanche ero nato. Eppure, scoprirli oggi ha un grande significato. Giocando ai porting su console moderne, rilasciati da Bethesda ed Id Software in occasione del Quakecon 2019 tenutosi a Londra, si ha la possibilità di rivivere quella genesi che ha dato vita a molti dei brand i quali oggi regnano sul mercato. C’è un motivo se una volta li chiamavano “sparatutto alla Doom” e, posso assicurarvi, non era affatto casuale.
Per i videogiocatori più anziani è un bel tuffo nel passato, mentre per quelli più giovani, come me, può rappresentare una sorta di novità, un effetto collaterale della vasta offerta videoludica oggi proposta dai tanti franchise. Giocarlo oggi concede a qualunque giovane la possibilità di osservare come una volta, soprattutto all’interno di uno sparatutto, tutte quelle comodità a cui siamo oggi abituati non ci fossero. Nessun suggerimento su schermo, nessuna indicazione, nessun tutorial. Poca libertà nella gestione della visuale, niente mirino e addio al movimento dinamico. Eppure, ancora oggi, ha un gameplay invecchiato bene i cui ritmi rimangono ancora irraggiungibili.
Oggi Doom è disponibile con l’eccellente reboot della serie pubblicato nel 2016, il quale conserva il gameplay tradizionale con una chiave di lettura moderna ed un level design incredibile. Tutto ciò verrà sensibilmente migliorato con Doom Eternal, in arrivo il 22 novembre su PlayStation 4, Xbox One e PC, ma le sensazioni di un tempo, la novità che si percepiva giocando, il ritmo, la scoperta, la semplicità, quelle apparterranno sempre ai classici.
Giocare Doom oggi è come mangiare il piatto tradizionale di un luogo, i cui sapori rimarranno impressi nella memoria di colui che degusta. Da esso nascono (e nasceranno) delle rivisitazioni in chiave moderna che daranno vita a nuovi piatti i quali, a loro volta, sapranno colpire i degustatori più giovani.

Matteo Murri
Appassionato di videogiochi e anime sin da tenera età, il suo primo videogioco fu Super Mario 64 per Nintendo 64, col tempo si affezionò alle console di Sony partendo appunto dalla prima Playstation. Oggi è un cacciatore di trofei su Playstation 4, predilige gli sparatutto, i titoli di corse e i picchiaduro, ma gioca veramente di tutto!

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